Mail del socio M. Moggioli

Riceviamo dal nostro Socio: Manlio Moggioli ed inseriamo in relazione alla Giornata del Ricordo:

La storia trascurata
E’ tutto buio attorno a me. Da quanto tempo sono qua? Ho la testa confusa che mi fa male in più parti. La devo aver sbattuta nella caduta. Sento dei vaghi gemiti. Anche quello che mi sta sopra si lamenta. Mi ha vomitato addosso. Quello sotto, invece, è immobile e freddo. Una acquerugiola scende dall’alto e mi cade a gocce sulla faccia, mista a sangue. Mi sento mancare e si fa ancora più buio.
Non so quanto tempo dopo mi riprendo. Quello sopra non si lamenta più. A poco a poco ritornano i ricordi …
“Nini! Nini! Alzati! Vieni a vedere! Sono arrivati i Liberatori!” dice mia madre scuotendomi nel letto.
E’ ancora presto, ma mi alzo, infilo le pantofole, e mi avvio assieme a lei verso la stanza da pranzo. Alla finestra c’è già mia sorella Carmen. Non fa freddo. Oggi è il primo di Maggio.
Mia sorella si sposta e guardo in strada. Siamo al primo piano e vivo lo spettacolo da vicino.
Soldati armati e disposti su due file allargate ai lati della strada, scendono dalle colline verso la città. Guardano da una parte e dall’altra verso le finestre delle case. Ogni tanto fanno cenno a qualcuno, con il mitra che portano a tracolla, di ritirarsi. Sono malconci, specialmente nelle scarpe ai piedi, che a volte sono solamente avvolti con bende militari. Sono però tronfi e hanno un fare arrogante. Tra di loro qualche donna pettoruta, anche essa in divisa militare, sembra disprezzarci con lo sguardo. Tutti hanno, incrociate sul petto, due strisce di munizioni e in testa una bustina, con una grossa stella rossa sulla fronte. Sono quelle che noi chiameremo “le rughe”. Sono i Liberatori, come mia madre ha così ironicamente definito.
“Che cosa vuoi fare?” mi chiede mia madre. “Vado in Banca! Viste come stanno le cose, oggi ci saranno tanti clienti che verranno a ritirare i loro soldi” le rispondo.
 “Stai attento!” “Mamma, non sono più un bambino, ho trentasei anni. Non sono stato e non sono fascista. Non ho neanche la tessera del Partito. Chi vuoi che mi faccia del male”.
Mi lavo con un filo d’acqua, mi vesto e esco di casa, dopo aver fatto una frugale colazione con pane di colore più scuro del caffè di cicoria, che mia madre mi prepara.
Le strade sono semi deserte. Molti negozi hanno le serrande abbassate. Passando vicino al Giardino Pubblico di via Giulia, vedo che delle ”rughe” stanno sostando nel parco. Hanno deposto il fucili, incrociandoli a piramide, acceso un fuoco con i rami caduti dagli alberi e, su di un prato, ballano in circolo il “kolo”. Qualche donna si è tolta la bustina e sciolta i capelli. Potrebbe sembrare una bella scena campestre, se non ci fossero le divise e i fucili, simboli inequivocabili dei conquistatori. Una bandiera a strisce orizzontali bianche rosse e blu, con nel centro una esagerata stella rossa, è il segno della loro origine. Per noi triestini sono “s’ciavi”.
Scendo lungo via Cesare Battisti (è meglio per lui non vedere questi avvenimenti) e rapidamente, attraversata Piazza San Giovanni, arrivo all’incrocio con via Imbriani. All’angolo, fermo, incontro un cliente della Banca, Giovanni Periz, un fuori classe stilista tappezziere di navi.
“Pagoni! Dove va? Stia fermo! I tedeschi sono rimasti asserragliati al castello di San Giusto e da là sparano d’infilata su chiunque cerchi di attraversare la strada. Aspettiamo che cessi un po’” mi dice Periz concitato.
Stiamo fermi assieme ad altri al riparo dell’angolo e ci fumiamo una sigaretta. Dopo dieci minuti tutto è calmo e decidiamo di attraversare di corsa. Via!
Con quattro salti sono al riparo dall’altra parte e sento sparare. Mi volto, il mio compagno è a terra, ferito a morte. “Pover Periz, nessuno godrà più della tua arte” penso raggelato e inorridito per l’accaduto.
Proseguo, cauto, per strade interne e arrivo alla sede della banca, dove lavoro. Il Banco di Sicilia.
Entro furtivamente da una porta secondaria. Non ho neanche aperto lo sportello, che mi viene detto di recarmi dal Direttore.
“Bravo Pangoni! Bravo! Lo sapevo che lei sarebbe venuto, anche se le sue idee non sono quelle del Partito. Mi raccomando, i fondi ci sono. Non lesini su quanto i nostri Clienti le chiederanno. Al lavoro! Al lavoro! Chiudiamo all’una. Alle due c’è il coprifuoco. Abbiamo deciso che dormiremo tutti qua. Ho fatto allestire delle brandine nel caveau.Ci stanno portando dei pasti”.  
La mattinata scorre tranquilla fino alla chiusura.
Nel pomeriggio, sentiamo uno sferragliare di cingoli e da una finestra vediamo che un carro armato con la stella rossa si sta piazzando in fondo alla via che corre di fianco alla Banca.
Da sotto la nostra finestra una mitragliatrice spara qualche colpo. Un soldato della Wermacht la manovra, da solo. Il carro armato si ritira mettendosi al riparo dietro l’angolo.  
La scena si ripete tre o quattro volte e poi il carro armato, scoraggiato, se ne va. Il soldato rimane sempre attaccato alla sua mitragliatrice.
Mi sento nuovamente mancare e, quando mi riprendo, mi sento sempre più debole. “Da quanto tempo sono così?”.
Passa qualche giorno, sempre asserragliati in banca. Il mattino del 4 maggio, il Direttore ci chiama e ci manda tutti a casa.
 Mia madre, con la quale sono sempre rimasto in contatto telefonico, mi preannuncia che mi preparerà una minestra di pasta e patate, per festeggiare il mio rientro a casa.
Ripercorro le strade che mi portano a casa. La città è sempre sotto il controllo dei soli “titini”. Non si capisce perché le truppe alleate sono ferme a quaranta chilometri da Trieste e non arrivano. Ormai si mormora apertamente che gli Inglesi hanno promesso la città al loro alleato Tito. Hanno incominciato a sparire delle persone.
Nel Giardino Pubblico alcuni gruppi militari continuano a ballare il “kolo”. Qualcuno taglia degli alberi per alimentare i fuochi. C’è sporco da per tutto. Vedo alcuni soldati defecare dietro i cespugli. Un carro armato è stazionato all’ingresso principale del Giardino. Che sia quello dell’altro giorno vicino alla banca? Non se ne vedono altri. In compenso la giornata è tiepida e il sole radioso.
Arrivato a casa abbraccio mia madre e mia sorella, commosse per il mio rientro.
“Vieni, vieni Nini” dice mia madre. “Ti riscaldo la minestra”.
Sempre con un filo d’acqua mi lavo la faccia, il collo e le mani e mi metto a tavola. La minestra fuma nel piatto.
Suona il campanello di casa e mamma va ad aprire.
“Il signor Riccardo Pangoni abita qui?” chiede, in italiano, un signore in borghese accompagnato da due “titini” in divisa.
“Si! Certo”. “Possiamo entrare?”.
“Buongiorno signor Pangoni. Sappiamo che lei possiede una pistola …”
“Sì, certo! Sono cassiere al Banco di Sicilia e sono obbligato a tenerla …”
“Bene. E’ necessario che lei venga subito al Commissariato qui vicino. Deve registrarla. La porti con sé”.
“Ma sta mangiando” soggiunge mia madre.
“Signora, è una formalità di pochi minuti. Non vorrei che suo figlio incapperebbe nel coprifuoco delle due” continua il civile, in un italiano stentato, che denota le sue origini.
“Mamma, hanno ragione. Vado e torno. Tieni la minestra calda” dico alzandomi da tavola.
Scendiamo in strada. Il Commissariato è dall’altro angolo dell’isolato.
Mi fanno entrare in una stanzetta dove siedono, in silenzio, altre persone.
Poco dopo, mi chiamano e mi portano in una altra stanza, dove un civile e un militare siedono attorno a un tavolo. Presento i documenti, richiestimi.
“Ah! Riccardo Nini Pangoni, nato a Trieste il 25 novembre 1908 e abitante qui di fronte, in via Cologna 19. Si sieda!” mi viene ordinato.
Il civile dice al militare “Sovversivo fascista!”.
“No! Guardi lei si sbaglia, non sono neanche iscritto al Partito” soggiungo.
“Taccia! Parlerà quando verrà interrogato!”.
I due leggono dei documenti e confabulano in sloveno, senza che io possa capire cosa dicono.
Il civile preme un campanello sul tavolo e alla persona che si affaccia alla porta dice di far entrare qualcuno.
“Miro, ti qua!” dico al bottegaio del negozio sotto casa mia, che è entrato, con mia grande sorpresa.
 “Tasi, porco de italian fascista! Adesso te ga finido de dirme porco de s’ciavo”  mi grida con disprezzo Miro.
“Ma Miro, ti te sa che no son fascista”.
Miro dice ancora qualche parola in sloveno ai due e esce senza neanche guardarmi.
I due parlano ancora fra di loro, firmano un documento e chiamano due militari che mi portano via, spingendomi in una altra sala dove sono raccolte una decina di persone.
Le carceri di via Coroneo, che non distano molto dal Commissariato di Pubblica Sicurezza di via Cologna, mi accolgono con mio gran stupore. Mi tolgono tutto quanto può servire, comprese le scarpe. Rimango in camicia e pantaloni senza cintura. Si aprono le porte di una grande cella comune.
Poco dopo vengo prelevato e portato in una stanzetta separata, dove tre individui mi picchiano a sangue con un manganello. Un colpo in faccia mi fa perdere dei denti. Svengo, ma un secchio d’acqua mi fa riprendere. Il trattamento continua.
A questi ricordi mi sento nuovamente mancare. Quando mi riprendo, sono stremato e non riesco più a pensare. La testa mi duole. Devo avere una gamba rotta. Ho voglia di dormire.
La notte la passo tra i miei compagni di sventura, che hanno subito tutti lo stesso trattamento.
Al mattino, veniamo caricati su di un camion cellulare. Dalle finestrelle, chiuse da grate, si riesce a scorgere a mala pena qualcosa dell’esterno, verso l’alto. E’ ancora una giornata di sole. La chiusura rumorosa della serratura delle porte posteriori del camion, suona come un triste presagio.
 Il camion si mette in moto e lo sento arrancare verso l’alto. Vedo l’edificio dell’Università, inaugurata poco prima della guerra, e la cava di pietra dei Faccanoni. Stiamo salendo verso il Carso.
Quando ci fanno scendere su di un prato, riconosco che siamo nei dintorni del paesino di Basovizza. I luoghi li conosco perché, nelle belle giornate, venivamo con le ragazze a far picnic e a ballare al suono della fisarmonica.
Lontano intravvedo Trieste e il suo golfo. Soffia un leggero “borin”. Ancor più lontano da una parte la costa dell’Istria e dall’altro la costa di Grado. Sento una forte nostalgia, la stessa che sentivano i nostri padri quando guardavano a ovest, in attesa che la Madre Patria venisse a liberare la città dagli austriaci. “Italia! Italia!” penso, mentre mi vengono le lacrime agli occhi.
Veniamo messi in fila e fatti camminare per un centinaio di metri. Una sosta. Veniamo divisi in gruppi di cinque.
Arriviamo davanti a un antro orrendo. LA FOIBA DI BASOVIZZA.
Ci legano con del filo di ferro, in fila, uno dietro all’altro e ci mettono in bilico, sul ciglio del nero pozzo.
Un ufficiale spara una raffica di mitra al primo. Cadiamo tutti dentro con lui, che fortunatamente è già morto.
 Note esplicative al racconto:
1. Nei “quaranta giorni” dell’occupazione “titina” della Venezia Giulia non si sa esattamente quante persone sono scomparse, in quanto il numero è rimasto sempre (forse anche volutamente) indefinito.
A Trieste, a suo tempo, la gente diceva che erano scomparse circa cinquemila persone. Molti erano attivisti fascisti, ma molti erano anche semplicemente italiani, che furono denunciati per vendetta da parte di cittadini di origine slovena.
Un primo rapporto provvisorio del Governo Militare Alleato, dell’aprile 1947, parla di 3.419 persone di cui 1.492 nella sola città di Trieste.
2. La storia di Nini Pangoni è storia vera, raccontata in famiglia dai genitori dello scrittore, che l’avevano appresa, nei suoi dettagli, dalla famiglia Pangoni, che viveva nel palazzo acconto al loro.
Quello che colpì soprattutto il vicinato fu l’estremo cinismo con il quale Nini fu portato via da casa, con la falsa scusa e con la promessa di un pronto ritorno dal vicino Commissariato, senza neanche lasciargli finire la sua ultima minestra, che, dal racconto della madre, risulta stesse mangiando.
Nini era un uomo semplice, non immischiato nella politica di allora e assolutamente non attivista fascista.
Nel rione si diceva che egli fosse stato denunciato per rancori da parte del bottegaio sloveno di sotto casa sua, tale Miro, che Nini, giovane esuberante, prendeva in giro per le sue origini etniche.
Passata l’occupazione, la gente incominciò a non frequentare più la bottega di Miro, che dopo poco dovette chiudere l’attività e andarsene dal rione.
E’ stato solo negli anni 2000 che si è incominciato a far luce sulla “storia trascurata” di Trieste. Da recenti elenchi di persone scomparse a Trieste, in quel triste periodo, risulta il nome del Pangoni, arrestato il 4 maggio 1945, deportato a Lubiana e ivi scomparso.
Da altro documento risulta che furono sei i cassieri di banca scomparsi lo stesso 4 maggio. Essi erano responsabili delle casseforti, nelle quali i “titini” fecero man bassa. I sei cassieri furono eliminati in quanto testimoni scomodi. Tuttavia, di questi episodi non si era mai parlato fino ai giorni nostri.       
3. Gli episodi dell’uccisione di Giovanni Periz, del carro armato e la mitragliatrice tedesca  vennero raccontati e descritti  dal padre dello scrittore. Egli assistette personalmente ad essi, mentre si recava alla Banca Commerciale Italiana, in qualità di funzionario. La Banca dista non molto dal Banco di Sicilia, dove lavorava Pangoni, come cassiere. In effetti fu il padre dello scrittore che visse i due episodi e rimase rinchiuso a guardia della Banca Commerciale, assieme ai suoi colleghi, e non Nini Pangoni come, con un artificio letterario, si dice nel racconto.
4. Le mire della Jugoslavia su Trieste o meglio su tutto il Friuli Venezia Giulia, fino al fiume Tagliamento, con la formazione di una “Slavia Veneta”, sono note da tempo, fin da quando, nel 1933, una dichiarazione congiunta dei Partiti Comunisti di Jugoslavia, Italia e Austria dichiaravano, senza riserve, il diritto alla autodecisione del solo popolo sloveno per la separazione di quelle terre dallo stato italiano.
Furono questi principi che portarono, durante la lotta partigiana, alla formazione di un distaccamento autonomo, denominato “Brigata Garibaldi”, dove i combattenti italiani erano alle dipendenze degli sloveni.
La “mattanza del 1943”con stupri, squartamenti, evirazione di sacerdoti, infoibamenti vari viene dal decreto del Consiglio Antifascista di Liberazione Nazionale della Jugoslavia, di quei tempi.
Chi si oppone all’annessione è uno “sciovinista italiano” e va eliminato. Questa fu la sorte del Comandante partigiano della “Brigata Osoppo”, Francesco De Gregori, e della ben nota strage di Porzus, del febbraio 1945, dove fu ucciso il fratello dello scrittore Pasolini.
Lo stesso suocero dello scrittore, amm. Carlo Chelleri – medaglia di volontario di guerra della Resistenza – fu un testimone di questi fatti. Egli, dato per disperso dopo l’8 settembre 1943, si era, in effetti, rifugiato a Isola d’Istria con la famiglia, che lo teneva nascosto, e colà faceva parte del CLN, per conto della Marina Militare Italiana. Fu imprigionato dalle truppe di occupazione “titine”, essendo stato incluso nelle liste delle persone da eliminare, preparate dai partigiani sloveni, che erano venuti a conoscenza delle sue attività in quel territorio. Un suo compagno concittadino, partigiano comunista italiano, riconoscente per gli appoggi ricevuti dall’ammiraglio durante l’occupazione nazista, lo aiutò ad uscire dalla prigione e a scappare precipitosamente a Trieste. La famiglia lo seguì di nascosto, notte tempo, con una barca a remi per superare il tratto di mare che separa Isola d’Istria da Trieste.
I partigiani comunisti italiani e sloveni associati, combattevano, non contro il Nazifascismo, ma per realizzare i voleri di annessione di Tito.
5. La foiba di Basovizza, in effetti, non è una vera “foiba” in termini carsici, cioè una cavità creata nella roccia calcarea da fenomeni erosivi di acque.
La foiba di Basovizza è, in realtà, un pozzo, profondo256 m, per la ricerca di carbone lignite, scavato ai primi del 1900. Sul fondo esiste una galleria di prospezione di 735 m, che dimostrò che gli scavi era stati vani. Si racconta che l’ingegnere che dirigeva i lavori si suicidò, buttandosi nel pozzo per la delusione.
La “foiba”, che, oggi, è monumento nazionale in ricordo delle stragi etniche perpetrate in città, è stata più volte visitata dai Presidenti della Repubblica e da altre massime Autorità italiane, in occasione di cerimonie di suffragio, che annualmente si celebrano colà.
Si ricordano le parole espresse dal Presidente Cossiga, nel 1991, durante una visita al monumento:
“Io ho chiesto perdono agli italiani dimenticati dalla nostra classe politica, infoibati dai comunisti titini, che avevano occupato le nostre terre. Altro che liberazione! …” 
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